Iconografia della virtù nell’arte gotica e medioevale

L’iconografia della virtù nell’arte gotica e medioevale è uno dei temi più trattati di dipinti, affreschi, statue e decorazioni di chiese, cattedrali e miniature di testi sacri.

Natura, scienza, virtù: questa è la disposizione dello Speculum majus. Si tratta, è il caso di notare, dei tre mondi di Pascal: del corpo, dello spirito e della carità; il pensiero cristiano è così perfettamente unitario che lo si ritrova identico nell’arco di tutti i secoli. La virtù, insegna il Medioevo, è superiore alla scienza e all’arte; essa è il fine supremo del mondo.

Ma, stranamente, gli artisti nelle nostre cattedrali hanno talvolta messo al posto più alto ciò che era più umile: a Parigi e ad Amiens le dodici vergini pensose che simboleggiano le Virtù non si trovano nella parte superiore del portale, accanto ai beati e agli angeli, ma sono sedute all’altezza dei nostri occhi, affinché, passando, possiamo imparare a conoscerle bene. Generazioni di mani le hanno sfiorate, e la polvere sollevata dai nostri piedi è giunta fino a loro; esse sono state dunque veramente calate nella nostra vita. Era difficile esprimere in modo migliore il concetto che la perfezione che il Vangelo ci chiede è davvero alla nostra portata.

allegoria delle virtu nell'arte gotica

In quale epoca le virtù assunsero nell’immaginazione cristiana forma concreta e viva? Quando furono concepite per la prima volta in veste di caste fanciulle, belle, semplici ed eroiche? Fin dalle origini stesse del cristianesimo. Pare che sia stato Tertulliano, per primo, a rappresentare le virtù come guerriere in lotta nell’arena contro i vizi.
Per primo espresse in modo ingenuo un’idea profonda: il cristianesimo non ha portato al mondo la pace, bensì la guerra, e l’anima è diventata un campo di battaglia. L’armonia che gli antichi saggi, nell’ignoranza della vera natura dell’uomo, avevano voluto far regnare in loro, non è di questo mondo; fintanto che siamo vivi, i due uomini che in noi coabitano si fanno guerra. Il dramma, che l’antichità aveva visto nella lotta fra l’uomo e un fato esterno, avviene in realtà in noi stessi.
Il concetto di una battaglia interiore, di una Psicomachia, non è certo di Tertulliano, poiché è una delle idee basilari del cristianesimo; egli ebbe il merito, essendo uomo di fantasia, di darle forma concreta.

Le Virtù nell’arte romanica

E’ sotto questo aspetto cavalleresco e con questo equipaggiamento guerriero che vediamo le Virtù nei capitelli e nei portali delle chiese romaniche. Armate di lancia, esse calpestano il nemico vinto, che talvolta assume l’aspetto di un mostro. Tali sono le Virtù su uno dei capitelli della chiesa di Notre-Dame-du-Port a Clermont, nella cattedrale di Tournai, e nel portale di numerose chiese della regione occidentale: Notre-Dame-de-la-Coudre a Parthenay, Saint-Hilaire di Melle, Saint-Nicolas di Civray22, Aulnay23 e Fenioux nella Charente-Maritime, Saint-Pompain nelle Deux-Sèvres. A Aulnay virtù e vizi sono indicati con i loro nomi: Ira e Patientia, Luxuria e Castitas, Superbia e Humilitas, Largitas e Avaritia, Fides e Idolatria, Concordia e Discordia.

Le Virtù nelle miniature gotiche

Gli artisti gotici adottarono nuove immagini per rappresentare le Virtù, tuttavia non abbandonarono subito la vecchia tematica della Psicomachia: uno dei portali della cattedrale di Laon, opera alquanto arcaica, presenta negli archivolti il combattimento fra i Vizi e le Virtù.
Ma a partire dal XIII secolo i teologi e dopo di loro gli artisti cominciarono a vedere la contrapposizione fra vizi e virtù sotto nuovi aspetti. Onorio d’Autun, una delle fonti vive dell’arte medioevale, raffigura la virtù sotto forma di una lunga scala che unisce la terra al cielo, e interpreta la visione di Giacobbe in senso morale; ogni gradino di quella scala è una virtù che egli nomina. Se ne contano quindici: patientia, benignitas, pietas, simplicitas, humilitas, contemptus mundi, paupertas voluntaria, pax, bonitas, spirituale gaudium, sufferentia, fides, spes, longanimitas, perseverantia.

Non era facile realizzare una metafora così poco plasticamente caratterizzata. Il miniatore che illustrò l’Hortus deliciarum ci si cimentò, ispirandosi del resto a un originale bizantino. Raffigurò fedelmente la mistica scala, la cui base poggia sulla terra e il cui sommo si perde nel cielo. Poi su ogni scalino collocò l’umanità. Gli uomini, di chiesa e laici, salgono faticosamente da un gradino all’altro, mentre i Vizi, che sono rimasti a terra, li chiamano dal basso. Un letto che simboleggia la Pigrizia li invita a riposarsi dalle loro fatiche; la Lussuria sorride loro. L’oro nei canestri, i cibi nei piatti, i cavalli e gli scudi sollecitano tutte le loro brame; alcuni di loro non sanno resistere, e dall’alto, da dove sono arrivati, ridiscendono con un brusco salto sulla terra. Ma una donna, certamente una religiosa, senza nulla ascoltare e nulla guardare si innalza verso la corona che l’attende alla sommità. L’allegoria è resa efficacemente e drammaticamente, e dovette commuovere le anime semplici delle religiose alle quali era destinata.

La metafora dell’albero

Nello stesso periodo prende corpo un’altra metafora. I teologi del XII e XIII secolo, che studiarono con tanto impegno la filiazione dei vizi e delle virtù, li paragonano spesso a due alberi vigorosi. Ugo di San Vittore, fra i primi a trattare l’argomento in tutto il suo sviluppo, dà nome a ognuno dei rami di questi due alberi. Uno è l’albero del vecchio Adamo e ha come radice e fusto principale l’orgoglio (superbia). Dal tronco si dipartono sette rami principali: l’invidia, la vanagloria, la collera, la tristezza, l’avarizia, l’intemperanza, la lussuria. Ogni ramo, a sua volta, dà vita a rami secondari; dalla tristezza, ad esempio, nascono la paura e la disperazione. Il secondo è l’albero del nuovo Adamo; l’umiltà ne costituisce il tronco e i sette rami principali sono le tre virtù teologali e le quattro virtù cardinali. A sua volta ogni virtù si suddivide così; dalla fede, per esempio, nascono a guisa di getti la castità e l’obbedienza; dalla speranza, la pazienza e la gioia, dalla carità, la
concordia, la liberalità, la pace, la misericordia. Adamo ha piantato il primo di questi alberi, Gesù Cristo il secondo: sta a noi la scelta.

Simili concezioni hanno avuto la loro influenza sulla produzione artistica, e ci spiegano alcuni enigmatici disegni dei manoscritti del XIII secolo. Eccone un esempio: nello Speculum vitae et mortis della Biblioteca Sainte-Geneviève, una strana miniatura rappresenta un grande albero le cui radici si diramano lontano. Esse si distinguono per la particolarità che all’stremità assumono la forma di un serpente, e che lo stesso serpente finisce in una figura femminile. La maggior parte di queste donne hanno un emblema o fanno un gesto che permetterebbe di riconoscerle, anche se accanto a loro non fosse scritto il nome. La prima (Radix luxuriae) si rimira in uno specchio, la seconda (Radix gulae) tiene in mano un bicchiere, la terza (Radix avaritiae) chiude un forziere, la quarta (Radix acidiae) volta le spalle all’altare, la quinta (Radix iracundiae) si strappa i capelli, la sesta (Radix invidiae) tiene in seno una bestia, la settima (Radix superbiae) non ha nessun attributo che la caratterizza. L’albero, le cui radici sono altrettanti peccati, allarga trionfalmente la chioma; al sommo sta seduta una regina con la corona in fronte, lo scettro in mano, circondata da uccelli neri. Questa insolente figura è come una anti-Vergine, una Vergine del male; le bianche colombe che riposano sopra Maria sono qui sostituite da neri corvi dell’inferno. All’albero è appoggiata una scala, e mentre i musici accordano gli strumenti, una donna vestita di bianco, simile a una morta, vi sale lentamente portando sul braccio il coperchio della sua bara.

Ritroviamo qui, sapientemente amalgamate, molte metafore care ai teologi del XII e XIII secolo. L’albero è evidentemente l’albero del Male dei dottori, ma concepito in modo diverso. I vizi stanno alla radice e le radici sono al contempo le sette teste del drago dell’Apocalisse. La scala ci ricorda quella che Onorio d’Autun innalza fra terra e cielo, ma una conduce alla vita, l’altra alla morte: coloro che vi si inerpicano credono di poter vivere, mentre invece sono già avvolti nel loro sudano. Tutti i concetti che una mente dotta di allora aveva del vizio e della virtù, tutti i paragoni allora dibattuti nelle scuole, hanno qui trovato il loro mezzo espressivo.

albero delle virtu e vizi nell'arte medioevale

Iconografia della virtù nell’arte gotica e medioevale ultima modifica: 2017-01-13T11:05:57+01:00 da Stefano Torselli

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